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The Osaka Experience V: Interview with Franco Purini – Italian version

We are now translating the interview into English and we will make it available soon!

Il progetto di Maurizio Sacripanti del Padiglione Italiano all’Esposizione Internazionale di Osaka del 1970 continua a catturare la nostra attenzione. Stiamo approfondendo il nostro caso studio che si sta arricchendo di dettagli appassionanti grazie all’indagine sui materiali di concorso. Abbiamo notato che in precedenti ricostruzioni tridimensionali alcuni particolari sono rimasti abbozzati. Il nostro obiettivo è però l’esplorazione in realtà virtuale dell’edificio e non vorremmo lasciare nulla di indefinito. Quello che ci interessa è soprattutto che l’esperienza immersiva risulti quanto più possibile aderente all’idea che Sacripanti aveva del padiglione. In quest’ottica un altro strumento prezioso sono le interviste ad alcuni dei professionisti che hanno preso parte al progetto.

Ci è sembrato necessario contattare Franco Purini, che ha lavorato con continuità, dal 1964 al 1968 e successivamente dal 1971 al 1973, nello studio di Maurizio Sacripanti, indicato più volte da lui come il suo maestro.

Ancora studente, ha disegnato molti dei più importanti progetti di quel periodo, fra i quali quello del Teatro di Cagliari, dell’Ospedale di Domodossola, del Museo di Padova, del Padiglione di Osaka, della Chiesa di Partanna. La risposta al nostro invito è stata positiva e il dialogo si è rivelato un profondo contributo, ricco di stimoli non solo per raccogliere informazioni sul Padiglione, ma anche e soprattutto per delineare i contorni della personalità del progettista, per meglio comprendere il suo pensiero e il suo approccio al lavoro. Abbiamo inoltre scoperto alcuni progetti inediti, avendo la fortuna di sentirne il racconto vivo e rispettoso di chi per anni gli è stato accanto catturandone lo spirito ben oltre i confini dell’architettura. Riportiamo dunque per intero l’intervista al Prof. Franco Purini, buona lettura.

Per la ricostruzione del Padiglione per noi sarebbe interessante approfondirne alcuni dettagli, quali la scelta dei materiali, i dettagli tecnologici, la distribuzione funzionale ecc. Potrebbe darci delle delucidazioni in merito? 

Franco Purini: Prima di rispondere alle vostre domande vorrei dirvi qualcosa sullo studio di Maurizio Sacripanti, situato nella soffitta dell’edificio di Giuseppe Valadier che sovrasta il Bar Canova a Piazza del Popolo, e poi trasferito nel cortile interno del palazzo, all’ultimo piano. Lo studio era aperto nel senso che la vita del Tridente, centro della cultura romana, entrava continuamente negli spazi piuttosto oscuri, sovrastati da capriate, dove si lavorava. Giornalisti, scrittori, artisti, musicisti, architetti, visitatori italiani e stranieri, arrivavano senza preavviso, accolti amichevolmente da Sacripanti, che amava molto conversare, a volte per ore. Quasi ogni sera passava il leggendario Ferrucci, che traduceva in splendide tavole a inchiostro di china gli appunti su piante, sezioni, prospetti elaborati durante la giornata. In breve lo studio sacripantiano era un vero e proprio spazio pubblico suggestivo e, cosa ancora più significativa, operante. Tra le persone che lavoravano con lui prima di me ricordo Fabrizio Frigerio, straordinario disegnatore, Andrea Nonis, assistente nel suo corso universitario, un architetto di grande qualità, che per inciso svolgeva in proprio una intensa attività professionale, Luciano Tombini, Giancarlo Leoncilli. A questi architetti aggiungo altri tre collaboratori storici, per completare il quadro dell’ambito lavorativo di Sacripanti del quale ho fatto parte negli Anni Sessanta e nei primi Settanta. Il primo è lo scultore Clementi, che realizzava meravigliosi plastici in gesso dei progetti di Sacripanti, per il quale prospettive e le sezioni prospettiche esprimevano la dimensione teorica e la tensione ideale delle sue architetture, mentre i modelli dovevano rendere visivamente evidente il rapporto con lo spazio reale degli edifici da lui ideati. Un secondo collaboratore, altrettanto importante era il fotografo Oscar Savio, sapiente e ispirato interpreti dei plastici e degli allestimenti sacripantiani, che ritraeva con effetti luministici e con una grande sensibilità per la forma architettonica. Il terzo collaboratore, che sostituì Ferrucci, Edoardo Zeriav, trasferiva in perfetti disegni a china, con una tecnica grafica esemplare, elaborati come piante, prospetti e sezioni, preparati da noi a matita.

Esaurita questa necessaria premessa il progetto che state traducendo in digitale è stato redatto nel 1968 in occasione del Concorso Nazionale per il Padiglione Italiano all’Expo di Osaka del 1970. Per il carattere sperimentale della proposta sono state discusse e previste tutte le soluzioni tecniche che potevano rendere operativo il progetto, ma non furono precisate e disegnate. Questa fase sarebbe stata infatti affrontata nel caso si fosse vinto il concorso il cui bando, in quanto concorso di idee per l’aggiudicazione dell’incarico, non richiedeva particolari approfondimenti tecnologici. Il vincitore avrebbe poi provveduto a redigere l’esecutivo. Anche gli elaborati del progetto di Tommaso Valle, vincitore del primo premio, rappresentavano l’idea primaria della proposta senza una narrazione tecnica delle modalità della sua realizzazione. In genere nei concorsi di idee le richieste del bando non sono molto dettagliate e precise sia per lasciare ai concorrenti la possibilità di fornire interpretazioni originali del tema stesso, sia per avere un progetto aperto a successive messe a punto. C’è da dire che l’apertura del progetto a soluzioni funzionali e formali è particolarmente necessaria nel caso di un concorso per un padiglione espositivo. Io sono stato nella commissione per la scelta del Padiglione Italiano per l’Esposizione Internazionale di Shangai del 2010. Il progetto vincitore, pur rimanendo legato alla sua prima indicazione formale, nella fase realizzativa è stato ripensato soprattutto dal punto di vista funzionale. Il sistema distributivo, infatti, non può essere definito in tutti gli aspetti nella proposta concorsuale poiché dipende da programmazioni successive al bando di concorso riguardanti, ad esempio, che cosa si vuole esporre; gli enti, le industrie, gli artisti che saranno presenti; quante saranno le iniziative congressuali, come si muoverà il pubblico ecc. Per Shangai il vincitore in fase esecutiva ha dovuto quindi rivedere e dare una fisionomia più precisa alla proposta iniziale adattandola alle esigenze che man mano si precisavano. 

Sacripanti, nei concorsi come questo di Osaka, si limitava a fornire gli elementi determinanti per la trasmissione dell’idea iniziale e a indicare meccanismi che potremmo chiamare, usando un riferimento importante ma necessario, appunti leonardeschi proiettati nel tempo presente. Pur essendo l’invenzione tecnologica determinante nella configurazione dei suoi progetti, egli non entrava in molti approfondimenti tecnici perché, per andare avanti, sarebbe stato necessario dare vita a un processo molto lungo e faticoso, di progettazione tecnologica avanzata, data la natura sperimentale delle sue proposte. Sacripanti, anche nelle fasi iniziali della progettazione, si avvaleva comunque del supporto di ingegneri, proprio per essere sicuro che le sue innovative visioni spaziali fossero poi effettivamente realizzabili. 

Come nota al margine, voglio comunicare a voi giovani architetti una mia convinzione. Nei concorsi, anche quando si tratta di competizioni che prevedono uno sviluppo già anticipato sul piano funzionale, non bisogna mai lavorare troppo sul progetto perché l’eccessiva precisione nella fase iniziale in qualche modo auto-consuma la propostaOccorre esprimere l’idea base che c’è dietro il progetto, l’idea forza come la definiva Manfredo Tafuri, possibilmente un’idea sola, non tante idee, in modo molto energico e preciso, arrestandosi davanti a tutta una serie di questioni, anch’esse importanti e che sicuramente dovranno essere risolte, ma solo successivamente, perché se fossero affrontate nella fase della prima formulazione dell’idea darebbero al risultato un qualcosa di déjà-vu.

In effetti l’ing. Maurizio Decina, che collaborò al progetto, ci ha dato l’idea di come gli aspetti tecnologici si sarebbero dovuti realizzare. È vero anche che alcuni aspetti del padiglione non vengono descritti nel dettaglio ma solo accennati, uno di questi è il rivestimento esterno flessibile detto “mantello”. Vorremmo integrarlo nel modello tridimensionale ma abbiamo dubbi sia sulla forma che sul materiale di cui doveva essere fatto. In una testimonianza per l’Accademia di San Luca, il Prof. Purini fa riferimento ad una struttura metallica che avrebbe dovuto sorreggere tale soluzione. Potreste dirci qualcosa in più?

Quel mantello era sostenuto da una rete mobile in acciaio che permetteva ad un tessuto trasparente in plastica di configurarsi come un drappeggio cangiante che avrebbe movimentato plasticamente un volume che Sacripanti voleva aereo e metamorfico. La struttura geometrica era molto semplice: un cerchio tagliato in due, sfalsato, innestato su una ideale spirale, forma che poi si ritrova in tutta la composizione. L’intero apparato si appoggiava su una serie di anelli composti da due circonferenze di diverso diametro, non in asse, in modo tale che una parte di questa ruota fosse più pesante dell’altra, come in un ascensore. Bastava quindi movimentare le ruote perché la differenza di peso le facesse oscillare, secondo un certo disegno complessivo di questa grande e sorprendente macchina, governata dal computer.  Si creava in questo modo l’impressione che l’edificio fosse un organismo vivente. Il tendaggio trasparente si configurava come qualcosa di magicamente attivo, che si deformava come la pelle di un fantastico animale. Cercate di vedere in prospettiva queste ruote, che girano con una complessità, anche spaziale, molto significativa, quasi ipnotica in una incessante metamorfosi dello spazio. Dal punto di vista compositivo il progetto fu redatto da Sacripanti, Nonis e da me, mentre Maurizio Decina si occupò della programmazione elettronica relativa al movimento, mentre i problemi strutturali furono affrontati dall’ingegnere Perucchini. 

Negli anni in cui ho lavorato con lui, Sacripanti, che era figlio di un ingegnere, aveva un grande interesse per gli aspetti tecnici del costruire, che conviveva in lui con la propensione per la forma. Era un architetto che voleva ampliare i limiti del suo mestiere e che, da un certo momento in poi, si è occupato anche del calcolo elettronico che si stava affermando in quel periodo, introducendo nelle sue opere alcuni caratteri dell’arte programmata e dell’arte cinetica. 

Sketch of the Osaka pavilion designed by Maurizio Sacripanti, 1968. From Neri M. L., Thermes L., Maurizio Sacripanti Maestro di Architettura 1916-1996, in “Bollettino della Biblioteca della Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Roma La Sapienza”, 58-59, Gangemi Editore, Rome, 1998, p. 111

Egli era fermamente convinto che fosse necessario e urgente per lui, ma anche per l’architettura in genere, utilizzare le risorse che l’elettronica metteva a disposizione. In questo è stato indubbiamente uno dei primi e più innovativi architetti a credere nelle possibilità di tutto ciò che non si chiamava ancora digitale. Alcuni suoi progetti, dal Grattacielo Peugeot al Teatro di Cagliari fino al Padiglione di Osaka, devono molto a queste correnti artistiche che erano allora le preferite anche di Giulio Carlo Argan, storico e critico di riferimento per Sacripanti. A tutto ciò va aggiunta una sua grande capacità dal punto di vista compositivo, del tutto originale e nutrita di una volontà sperimentale ammirevole e unica. Ci sono alcuni progetti in cui gli elementi vengono assemblati e scomposti con rara abilità, come ad esempio nel progetto per un Insediamento a Bagnoli, in cui la sua ars combinatoria si rivela densa di valenze logiche ed espressive raggiungendo livelli avanzati, sofisticati e consistenti. La poetica sacripantiana aveva inoltre al suo centro una totalità spaziale che offriva una molteplicità di sguardi che l’attraversavano in ogni direzione, aumentando virtualmente la sua ampiezza e la sua profondità, come avviene in modo esemplare nel Museo degli Eremitani a Padova. Una profondità reale e insieme virtuale dal forte sapore scenografico che rinviava all’immaginario piranesiano. Va inoltre detta una cosa che non tutti conoscono. Nel pensiero di Sacripanti era anche molto presente la personalità di Gustav Jung, di cui aveva sulla sua scrivania l’edizione francese, de L’ uomo e i suoi simboli, consultato come una specie di breviario, dal quale selezionava una serie di suggestioni che poi diventavano materiali di progetto. Per meglio comprendere l’opera sacripantiana è forse utile a questo punto, scandirla nelle sue fasi, che per me sono tre. La prima, inizia con l’intervento al QT8, a Milano, un’occasione importante dovuta a Piero Bottoni, un importante architettoche aveva progettato quel quartiere. Continua subito dopo a Perugia, con un progetto per una importante piazza, prosegue a Verona con il Quartiere Santa Lucia, con il progetto combinatorio per Bagnoli e, a Roma, con un gruppo di palazzine a Via Cassia. Il razionalismo di questa prima fase cede il passo alla seconda con il famoso progetto per il Grattacielo Peugeot a Buenos Aires, premiato con una menzione onorevole, con il quale inaugura il ciclo più importante della sua ricerca nel quale l’arte e il calcolo elettronico assumono un ruolo primario. Il Teatro di Cagliari, l’Ospedale per i silicotici a Domodossola, il Museo degli Eremitani a Padova, il Padiglione di Osaka, la Chiesa di Partanna, la sistemazione Paesaggistica del fiore di acciaio di Umberto Mastroianni a Cassino, tutti rimasti sulla carta, hanno un respiro internazionale per la loro carica utopica e visionaria, per la relazione che c’è in essi con i linguaggi figurativi e plastici, per la singolarità del linguaggio. Il terzo periodo dell’attività del grande maestro romano è quello in cui egli realizza tre opere le quali, seppure importanti, non hanno più la forza dei precedenti progetti non realizzati. La Scuola a Sant’Arcangelo di Romagna, il parcheggio e la piazza a Forlì, due parti secondarie del grande sistema del Nuovo Teatro che non riuscì a costruire, il Museo Parisi, situato sulla foce del Torrente Giona, a Maccagno, sul Lago Maggiore sarebbero divenute architetture veramente memorabili se non fossero venute dopo la fase più avanzata ed eretica della sua ricerca, come la considerava Bruno Zevi, rispetto alla quale esse sembravano aver fatto un passo indietro. Sono da sempre convinto che nella terza fase egli avesse subito l’influenza del più giovane Luigi Pellegrin, anche lui uno sperimentatore, ma meno radicale ed estremo di Sacripanti. A mio avviso la vicinanza a Pellegrin contribuì a conferire al suo linguaggio una certa tonalità manierista, che attenuava sensibilmente il suo immaginario. Tale influenza si riconosce soprattutto nell’importante progetto della terza fase della ricerca sacripantiana, il Museo della Scienza a Via Giulia, che avrebbe colmato il vuoto antistante Piazza della Moretta, causato dallla demolizione degli Anni Trenta di alcuni edifici per collegare Corso Rinascimento al Gianicolo. Si tratta di un’ennesima opera non realizzata che riprende e amplia con grande efficacia spaziale l’impianto del progetto padovano agli Eremitani. Purtroppo all’esterno il Museo della Scienza è attenuato nella sua notevole presenza da una certa sovrabbondanza di motivi che oggettivano oltre il dovuto la sua architettura. Io ho avuto la grande fortuna di lavorare con lui nella sua stagione più feconda, fatta di un’ispirazione innovativa che ha pochi precedenti e pochissimi prosecutori. Mi permetto, a conclusione di questa risposta, una parentesi biografica. Alla fine del progetto di Concorso per il Teatro di Cagliari mi accorsi con grande sorpresa e con tanta gratitudine che il mio nome era stato incluso tra quello degli autori. Avevo vetitrè anni, ero ancora studente. Pensai intensamente a quel gesto generoso, e qualche giorno dopo gli dissi che preferivo non essere inserito più tra i suoi collaboratori, restando comunque nel suo studio con continuità e con un crescente interesse. Questa scelta era contraddittoria, e ne ero cosciente, ma ancora oggi la rifarei. Per un verso ritenevo Sacripanti non uno dei miei riferimenti più importanti, ma il mio maestro, dal quale ogni giorno potevo apprendere qualcosa di decisivo sull’architettura; per l’altro non volevo, però, identificarmi con lui, diventando così un suo epigono, nel senso che cercavo una strada fortemente personale nella ricerca. Nonostante questa contraddizione, nei sette anni, il primo periodo dal 1964 al 1968, il secondo dal 1971 al 1973, cercai con tutte le risorse di cui disponevo di essere per il mio maestro un interlocutore assiduo e intenso, cercando di esprimere ciò che nei suoi progetti, ricordando un celebre aforisma di Colin Rowe, “non era tanto importante il visibile quanto l’invisibile”.

Model of the settlement “Cynthia” in Bagnoli (Naples) designed by Maurizio Sacripanti, 1964. From Neri M. L., Thermes L., Maurizio Sacripanti Maestro di Architettura 1916-1996, in “Bollettino della Biblioteca della Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Roma La Sapienza”, 58-59, Gangemi Editore, Rome, 1998, p. 57

Studiando il padiglione di Sacripanti abbiamo scoperto diverse interpretazioni sulla genesi geometrica del padiglione, in particolare relativamente alle lame e al mantello. Ad esempio, Paolo Portoghesi, in una Lectio Magistralis dedicata a Sacripanti, fa riferimento al “Epitomnium scalare”. Gli scritti di Sacripanti e la relazione di progetto non forniscono spiegazioni in merito. Qual è il ricordo o la vostra interpretazione a riguardo?

FP: Essendo Paolo Portoghesi un grande architetto e uno storico straordinario, la lettura che egli da dell’opera è senz’altro molto interessante, anche se, a mio avviso, la sua concezione della progettazione architettonica, non direi opposta ma quasi, rispetto a quella di Sacripanti, non gli permette, forse, di cogliere quella che personalmente ritengo l’essenza del suo lavoro; ovvero la volontà di trovare la via per una nuova architettura la quale invece di essere composta da parti fisse, fondasse la propria identità nel collegare più parti in movimento fra di loro. L’architettura per molti di noi è qualcosa di fisso, un manufatto immobile, che ha sempre la sua sostanza nella plastica del  volume e in una spazialità misurabile. Sacripanti voleva sconvolgere questa staticità sostituendola con un sistema mobile. La Scuola di Sant’Arcangelo di Romagna è appunto l’espressione realizzata del tentativo di fare dell’architettura un sistema spaziale completamente mobile, mutevole, metamorfico, in opposizione rispetto alla concezione statico-prospettica dell’architettura. La stessa finalità è espressa nel progetto per il Teatro di Cagliari, in cui soffitto e platea si potevano modellare secondo le esigenze registiche dello spettacolo, dando luogo a uno spazio in qualche modo dinamico e indefinibile. La solidità delle strutture veniva così contraddetta dalla plasmabilità dello spazio.

Bisogna ricordare che il giovane Portoghesi era molto interessato ad una concezione della composizione architettonica come azione all’interno di un campo energetico di una tessitura delle direzioni spaziali che potevano modellare la sua architettura. E nell’idea portoghesiana di campo si può ritrovare qualcosa di analogo al sistema gravitazionale presente nei progetti di Sacripanti, i quali hanno sempre una quadratura geometrica estremamente forte e precisa. L’attenzione per una tensione che sostenga il progetto, nel giovane Portoghesi il campo con le direzioni geometriche che lo attraversano e in Sacripanti la necessità di un supporto geometrico, possono essere interpretati come un aspetto che potrebbe accomunare la ricerca dei due architetti.

Perspective view of the lyric theater of Cagliari designed by Maurizio Sacripanti, drawn by Franco Purini, 1964. From Neri M. L., Thermes L., Maurizio Sacripanti Maestro di Architettura 1916-1996, in “Bollettino della Biblioteca della Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Roma La Sapienza”, 58-59, Gangemi Editore, Rome, 1998, p. 73

Questa struttura geometrica è particolarmente presente nel Progetto dell’Ospedale per Silicotici di Domodossola, che Sacripanti in un incontro a rue de Sèvres mostrò a Le Corbusier per avere il parere di uno dei padri dell’architettura moderna. II grande maestro colse l’aspetto più significativo del progetto e definì i corpi edilizi librati nel vuoto che si incrociavano e davano movimento a tutto l’impianto “une couple de vecteurs” – una coppia di vettori.  Ritengo inoltre importante mettere in evidenza che nella ispirazione immaginifica di Sacripanti è presente non solo l’attenzione per gli aspetti simbolici – ho già ricordato Gustav Jung – ma anche una tendenza al mistero alchemico e in fondo contraddittoria rispetto a quella relativa al calcolo elettronico. Egli era molto interessato, per esempio, all’esoterismo, a temi misteriosi, a segreti suggestivi. A questo proposito ricordo ancora il pomeriggio in cui vennero a trovarlo nello studio di Piazza del Popolo il grande storico Joseph Rykwert e Roberto Calasso, allora un giovane scrittore che è stato uno dei fondatori della casa editrice Adelphi, i quali trascorsero con lui alcune ore impegnati tutti e tre a sfogliare con entusiasmo un prezioso libro sulla Cabala. L’attitudine per la scienza, l’ingegneria e il computer conviveva in lui non solo con l’interesse allora alternativo per una cultura tutta rivolta allo sviluppo invece che al progresso, nel quale credeva invece Pier Paolo Pasolini, per il simbolico come ho già detto, ma anche per il mistico e per la religione, soprattutto per tutto ciò che non si può afferrare con la sola ragione. In questo era molto vicino a Le Corbusier che nel definire lo “spazio indicibile” asserisce che l’architettura ha in sé qualcosa che non si può dire, che non si può spiegare a parole, che è sostanzialmente inafferrabile. E quello per il Padiglione di Osaka sicuramente è uno dei progetti che meglio rivela la presenza nell’ispirazione e nella mente di Sacripanti la volontà di realizzare qualcosa che avesse un quid inafferrabile, qualcosa che ogni volta che si intuisce suggerisce domande nuove.

Model of the hospital in Domodossola designed by Maurizio Sacripanti, 1965. From Un ospedale in montagna, in “Domus”, 437, April 1966

A livello di rappresentazione del progetto, visto che questa architettura avrebbe avuto assetti variabili e quindi diverse configurazioni, ci si è posti la questione su come tradurre tale dinamismo nel linguaggio statico degli elaborati di concorso? Il plastico, ad esempio, era dinamico?

FP: Rappresentare l’idea base del progetto è stato molto complicato. Esiste un modello in scala, bellissimo come tutti i plastici ideati da Sacripanti, ma è un modello senza movimentazione. Per quanto riguarda il disegno più noto del progetto, la prospettiva che guarda dall’alto verso il basso che fui io a disegnare, è l’esito della difficile e lunga ricerca per dare vita ad un qualcosa di iconologicamente molto forte, che rimanesse nella memoria. Obiettivo alla fine raggiunto se, a più di cinquant’anni dalla sua esecuzione, il disegno ha ancora una sua validità sia dal punto di vista grafico, sia come rappresentazione di un edificio che potrebbe ancora oggi, se fosse costruito, costituire un elemento di novità. Sacripanti stesso, in un’intervista, dichiarò che nello studio non riusciva a trovare il modo di rappresentare adeguatamente il progetto, “poi ci pensò Purini”, aggiungendo alla fine, cosa che però mi pare poco credibile: “e io l’ho stemperato con l’acqua o con alcool”. Se egli fece quest’operazione distrusse il disegno, che tracciato con l’inchiostro di china si sarebbe trasformato in una macchia. L’originale del disegno, che aveva piccole dimensioni, oggi non c’è più. Al MAXXI e all’Accademia di San Luca ci sono copie eliografiche su carta lucida ingrandite.

Perspective view of the Osaka pavilion designed by Maurizio Sacripanti, drawn by the architect Franco Purini, 1968. From Neri M. L., Thermes L., Maurizio Sacripanti Maestro di Architettura 1916-1996, in “Bollettino della Biblioteca della Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Roma La Sapienza”, 58-59, Gangemi Editore, Rome, 1998, p. 109

In effetti quel disegno è ancora oggi icona inconfondibile del progetto. Restando sul tema del movimento di alcuni elementi dell’edificio, che sicuramente era uno degli aspetti maggiormente innovativi della proposta, cosa pensavate riguardo all’integrazione di elementi cinetici nell’architettura? È stato oggetto di dialogo e confronto anche al di fuori dell’ambito prettamente architettonico?

FP: Certo. Sacripanti aveva un fortissimo rapporto con gli artisti, un rapporto fondamentale per la sua architettura. Era diviso tra un immaginario architettonico utopico, la complessità dei sistemi ingegneristici e del computer mentre, allo stesso tempo, coltivava un grande interesse per la pittura e le arti in genere. É stato molto amico di uno dei più grandi artisti del ‘900 italiano, Mario Mafai, autore di una delle due prospettive del Grattacielo Peugeot (la seconda, quella che fu presentata al concorso, disegnata da Fabrizio Frigerio). Aveva un rapporto consuetudine con due importanti pittori astrattisti, Achille Perilli e Gastone Novelli, che invitò un anno a collaborare nel suo corso universitario, al quale partecipai anche io, ancora studente, come assistente interno assieme a Paolo Martellotti e Mario Seccia. Fu quella una delle prime occasioni in cui si parlò di architettura come arte in una Facoltà rivolta quasi esclusivamente a fornire una preparazione professionale.

Lui stesso era un protagonista del mondo artistico romano degli anni ‘60 che si muoveva intorno a piazza del Popolo. Il perimetro tra i Bar Canova e Rosati e le trattorie circostanti – Cesaretto a via della Croce, I fratelli Menghi a via Flaminia – definiva un luogo dove si concentrava una presenza straordinaria, oggi impensabile, di artisti, letterati, attori, divenuti poi famosi esponenti della cultura italiana: dai pittori dell’Astrattismo, tra i quali Achille Perilli e Gastone Novelli, a quelli della Pop Art romana, come Mario Schifano, Tano Festa, Franco Angeli, Cesare Tacchi,  e a quelli della Transavanguardia; da registi come Federico Fellini a scrittori come Germano Lombardi e giornalisti, tra i quali Valerio Riva. Gli intellettuali stranieri che arrivavano a Roma sedevano ai tavoli di Rosati, dove ho conosciuto Jack Keruac e Gregory Corso mentre bevevano una notevole quantità di birre. A Piazza del Popolo si viveva in un’atmosfera straordinaria nella quale per noi giovani non era difficile parlare con queste personalità anche senza essere presentati. Quando, dopo un pomeriggio di lavoro, Sacripanti mi invitava da Rosati a prendere un aperitivo, che sempre gentilmente mi offriva, potevo partecipare a scambi di opinioni e anche di contrasti, vivendo un susseguirsi di suggerimenti, di commenti sulle mostre in atto, sulle vicende culturali e politiche e su tutto ciò che in quegli anni era importante. Intorno ai tavoli degli intellettuali, impegnati spesso in liti furibonde, le sedie man mano aumentavano a spirale e si facevano le dieci per andare a cena spesso con il nostro maestro. Mi ricordo i rappresentanti del Gruppo 63, tra I quali Umberto Eco, Alberto Arbasino, Elio Pagliarani, che esponevano le loro idee al bar o al ristorante, mentre dal ‘68 in poi hanno cominciato a presentarle in televisione. Il dibattito si stava infatti spostando dai luoghi di ritrovo del centro storico di Roma allo schermo televisivo. Si può sostenere, generalizzando, che qualche modo la televisione privatizzò e rese elitario l’intensissimo scambio culturale allora in atto nei bar e nelle trattorie con i componenti di questo movimento, in contraddizione con la volontà di mescolare, come si diceva, l’alto con il basso, una volontà insita nella definizione stessa di mass-media. 

Tutto ciò si riflette nel lavoro di Sacripanti che ha, come avrete capito studiando la sua opera, un fondo di inquietudine, compreso in modo chiaro e sincero da Luca Canali, un grande latinista suo amico che ha scritto l’introduzione al libro Peccata Mundi, in cui sono raccolti I testi dell’architetto. Inquietudine presente inevitabilmente in chi sperimenta, perché la ricerca è sempre qualcosa di inquietante: non si sa che cosa si troverà alla fine e se ci sarà il risultato perseguito. Ciò è testimoniato nel progetto dell’Ospedale per I Silicotici a Domodossola, un’opera complessa con un’immagine nuova, straordinaria, direi quasi fantascientifica con I suoi sbalzi di 40 metri, con la quale Sacripanti voleva sottrarsi alle convenzioni di una ambigua normalità.

L’ultima riflessione che abbiamo voluto condividere in questo incontro riguarda l’idea di futuro di Maurizio Sacripanti. Quale architettura secondo lui sarebbe emersa? Che tipo di rapporto avrebbe avuto con la tecnologia? Sono domande che secondo noi sorgono non solo guardando il progetto di Osaka ma soffermandosi ad esempio sul Teatro di Cagliari o sulla proposta per il Museo degli Eremitani di Padova. In parte l’argomento è stato toccato dallo stesso architetto nello scritto della relazione per il Concorso di Osaka, in parte, in termini più ampi, si scorge sottotraccia uno sguardo che travalica l’immediato presente dalle interviste che gli sono state fatte e che sono arrivate fino a noi.

Tornando all’iconico disegno da lei realizzato per il Padiglione, sembra quasi che spazio e tecnologia convergano in un unico organismo, animato dal movimento mai uguale di quegli anelli sospesi. É questo rappresentativo di come Sacripanti intendesse l’architettura?

FP: Maurizio Sacripanti aveva un’idea dell’architettura come espressione totalmente artistica nella quale le necessarie conoscenze tecnico-scientifiche venivano trascese in un linguaggio, comprensibile e insieme profondo. Questa sua visione è chiaramente espressa nel disegno delle due sfere del progetto per il Padiglione di Osaka: da una parte un’iconicità utopica, dall’altra un’attenzione alle tecnologie che potevano permettere di realizzare opere avanzate. É necessario rilevare che nella storiografia dell’architettura ufficiale le opera di Sacripanti è presentata come uno degli esempi non principali dell’architettura dell’utopia, mentre va considerate importante per la ricerca delle figuratività che l’innovazione tecnologica avrebbe permesso con i mezzi solo oggi a disposizione. Per comprendere la specificità del suo messaggio gli studiosi e I critici più giovani, meno condizionati dalle storie dell’architettura già scritte, dovrebbero oggi riflettere sul rapporto tra l’architetto e tutte le espressioni artistiche di quegli anni, più che sulle ricerche utopistiche degli anni ’60 e ’70. Sacripanti era, infatti, una figura molto più complessa di quanto oggi le enciclopedie ci raccontino: si parla di lui come di un eccentrico, un ricercatore che ha fatto progetti interessanti, senza cogliere gli aspetti concettuali della sua architettura, che invece esistono e sono determinanti. Per questo abbiamo parlato in precedenza del rapporto con Jung, con la musica, sopratutto quella concettuale ma anche poetica di John Cage, con l’arte in tutte le sue espressioni. Era l’unico architetto che in quegli anni aveva un’ammirevole e inconsueta ampiezza di vedute e uno dei pochi a interpretare nel modo più autentico e duraturo la “lezione eretica” di Bruno Zevi sull’architettura.

Ritornando sul ruolo della tecnologia nell’opera di Sacripanti, voglio precisare essa non era per lui tanto la scienza del costruire, quanto un orizzonte che permetteva all’architettura di rinnovarsi, di rigenerarsi, di rinascere in altre forme. Pensiamo al Grattacielo Peugeot di Buenos Aires, al Teatro di Cagliari, allo stesso Padiglione di Osaka. Se questo fosse stato costruito, avrebbe mostrato la sua materia come un serpente arrotolato mostra la sua pelle, con una trasformazione luministica continua, con un qualcosa che si svelava e si velava. Tale movimento avrebbe coinvolto chi stava dentro procurando sensazioni che l’architettura non era riuscita ancora a produrre, proprio perché essa si configura come un qualcosa che, se anche a volte visualmente tende alla mobilità, in realtà è ferma. Sacripanti voleva superare la fissità congenita dell’architettura, ma anche la sua mobilità apparente; voleva trasformare i movimenti congelati in movimenti reali, in qualcosa che accompagnasse il passo dei visitatori o degli abitanti.

Pensando alle ultime opere realizzate, la Piazza e il Parcheggio a Forlì, la Scuola Media di Sant’Arcangelo di Romagna e il Museo Parisi di Maccagno, si può costatare come la sua ricerca abbia dato risultati molto avanzati, anche se egli rinuncia in gran parte alla visione utopica fino ad un estremismo linguistico che aveva dell’architettura negli anni ‘60. In queste tre realizzazioni – la terza senza però il Teatro – ci sono i passaggi che in qualche modo segnalano sempre un’eccezionalità dell’intervento, ma allo stesso tempo segnano anche alcuni orientamenti della cultura europea e mondiale con i quali si è confrontato. Era molto interessato ad una idea positiva del costruire, ma anche a negarla in una forma singolare di sovversione compositiva. Per lui costruire era quindi l’esito di un andare oltre le consuetudini per scoprire qualcosa che oltrepassasse il suo stesso immaginario, qualcosa che il costruire non aveva mai rappresentato. 

Per finire, voglio richiamare l’attenzione su un progetto che non tutti conoscono: la sistemazione del grande monumento che Umberto Mastroianni ha costruito su un versante della montagna di Cassino in memoria della distruzione della città durante la Seconda Guerra Mondiale. Sacripanti aveva immaginato un percorso ascensionale, mai realizzato per problemi di finanziamento, che si concludeva con una specie di fiore in cemento, da cui doveva sbocciare la straordinaria rappresentazione dei bombardamenti pensata dallo scultore. Sarebbe stata un’opera di land art che avrebbe dato un senso in più all’opera scultorea. Era una promenade architecturale che avrebbe guidato i visitatori dentro la tragica e coinvolgente esplosione plastica ideata da Umberto Mastroianni. Questo progetto è presente nell’archivio digitale dell’Accademia di San Luca, e sarebbe bene che venisse studiato, così come il progetto per la Chiesa di Partanna, in cui Sacripanti aveva dato una meravigliosa interpretazione dell’altare, caratterizzato da una geometria semplicissima ma straordinariamente suggestiva.

Sarebbe importante per gli studiosi più attenti e motivati, rintracciare altri due progetti, che, per qualche ragione a me sconosciuta, Sacripanti non ha mai pubblicato, e che quindi pochi conoscono, anche tra gli ammiratori, ma che ritengo utili per spiegare ulteriormente la sua idea di tecnologia. Il primo è il progetto redatto con Fabrizio Frigerio, suo storico collaboratore, di pareti e armadi che potevano essere spostati facilmente con il sistema degli hovercraft, sorvolando il pavimento per dare vita negli open spaces a scansioni diverse degli interni. Il secondo, che non mi risulta sia reperibile negli archivi in cui sono presenti architetture sacripantiane, dall’Accademia Nazionale di San Luca al Maxxi, risale agli ultimi anni ‘60 quando crollarono due arcate del Ponte di Ariccia. Sacripanti, insieme all’ingegnere Martinelli, propose di non ricostruire queste due campate distrutte ma di sostituirle con una struttura a spirale, in acciaio se non sbaglio. Le superfici curve da lui ideate, che sostenevano l’impalcato, superavano sia il modello trilitico sia la sequenza di pilastri e arcate dell’opera danneggiata. La dinamica dello spazio ne moltiplicava il senso, le dimensioni, la sua stessa essenza.  Questo disegno mi servì per comprendere più profondamente il significato della geometria nell’opera del mio maestro, una geometria che non si riferiva a un sistema statico ma voleva scoprire una nuova logica del costruire, la fisiologia evidente di una forma evolutiva la cui incessante metamorfosi era l’esito di una pura spiritualità. Non ho più visto l’originale di quel disegno nelle varie mostre sull’opera sacripantiana. Probabilmente, come molti altri progetti, tra i quali uno degli ultimi, un edifico destinato a ospitare aule per l’Università la Sapienza, al posto della sede della società editrice Bestetti e Tuminelli, se non sbaglio, sarà andato disperso. Il progetto di restauro innovativo del Ponte di Ariccia precedeva di qualche anno il Ponte sul Basento di Sergio Musmeci, che non credo conoscesse la proposta sacripantiana. Ciò non toglie che il celebre ingegnere, il quale interpretò per primo le misteriose ragioni che producevano l’arditezza costruttiva e la forma sorprendente presenti in quell’opera, sia stato in quel modo un erede ideale di quella precedente proposta. Decenni dopo Zaha Hadid proseguirà nella stessa direzione. In effetti la vision dell’infrastruttura di Ariccia, risanata con soluzioni avveneristiche è una delle più avanzate idee-immagini con le quali Sacripanti ha anticipato molte delle previsioni che sono divenute realtà nell’architettura dell’attuale secolo. Voi conoscete senz’altro il libro Città di frontiera,edito da Bulzoni del ‘73, dove è già proposta una visione della tecnologia e soprattutto di come la tecnologia potrebbe trasformare l’architettura plasticamente che ha notevolmente anticipato molte opere di successo contemporanee.

Chiudo questa conversazione, se il tempo me lo consente, ricordando alcuni architetti, che hanno conosciuto e ammirato Sacripanti, e che ne diffondono purtroppo un’immagine non corrispondente al vero, parlando di lui come un’eccezione, una personalità isolata, a suo modo eccentrica, vagante per il Tridente sempre ansioso. In realtà egli era fortemente radicato nella cultura architettonica romana, di cui rappresentava la posizione più avanguardistica. Consapevole erede, a suo modo, del Futurismo. Amico di storici, letterati, pittori, scultori, registi, partecipava pienamente al clima intellettuale della Capitale. Sapeva di essere uno dei protagonisti viventi della storia come tante altre celebrità di quella età dell’oro che sono stati gli Anni Sessanta a Roma. Non è possibile interrogarsi su di lui dimenticando il suo essere stato organico ai fermenti culturali di quel periodo e al contempo uno dei pochi liberi dai condizionamenti che ogni periodo comporta.

Portrait of Maurizio Sacripanti. From Portoghesi P., Omaggio a Maurizio Sacripanti, in “Annali delle Arti e degli Archivi. Pittura, Scultura, Architettura”, 2, Accademia Nazionale di San Luca, 2016, p. 32

Interview conducted by
Valentina Temporin, John Volpato, Pio Lorenzo Cocco
on September 28, 2020


Cover image
Franco Purini – Perspective view of the Osaka pavilion, 1968.